Essere maschi, tra potere e libertà
Per recensire il libro di Stefano Ciccone, non posso fare altro che partire da me: io sono gay, uomo e militante dell’Associazione Radicale “Certi Diritti”. Di Yuri Guaiana.
“Il privato è politico” gridavano le femministe un bel po’ di anni fa. Si tratta di uno slogan che Stefano Ciccone sembra ritenere ancora valido e che io condivido pienamente. Per recensire questo libro, non posso allora fare altro che partire da me: io sono gay, uomo e militante dell’Associazione Radicale “Certi Diritti”. Perché mai un gay dovrebbe interessarsi a un libro sul maschile scritto da un eterosessuale, potrebbe chiedersi qualcuno. La risposta è semplice: essendo uomo gay, condivido con i maschi di qualunque orientamento sessuale l’esperienza di quella dicotomia tra potere e libertà indicata nel sottotitolo del libro. Come maschio, sento il pericolo di rimanere intrappolato in una logica di potenza che si compone di due facce di una medesima medaglia: la paura dell’impotenza e il delirio di onnipotenza, perfettamente sintetizzato nel 1945 dal filosofo francese Bertrand de Jouvenel: “un uomo si sente più uomo quando riesce a imporre se stesso e a fare degli altri strumenti della sua volontà”. Gay ed eterosessuali devono rischiare di uscire da questa logica per smettere di temere la libertà dell’altro (oltre alla propria che comporta una vera responsabilità) aprendosi così alla possibilità di una nuova intimità e di un riconoscimento reciproco in una relazione con l’altro fondata su un “Amore Civile”, per prendere a prestito il titolo dell’importante progetto di riforma del diritto di famiglia presentato in Parlamento dai deputati radicali.
In molti passaggi del suo libro, il Presidente della rete nazionale Maschile Plurale riconosce l’importanza del contributo che noi gay possiamo dare alla riflessione sul maschile per estendere i limiti del più tradizionale modello di mascolinità: occorre, scrive, “riconoscere come la discriminazione omofoba agisca come dispositivo di controllo che ordina i comportamenti sessuali e la socialità di tutti gli uomini e attinga a un immaginario che struttura la rappresentazione, e dunque l’esperienza del corpo maschile tout court” (240). Ma un dibattito franco tra maschi di qualunque orientamento sessuale sul maschile servirebbe anche noi gay per riconoscere certe dinamiche, certi bisogni e certe paure comuni e per interrogarsi in profondità su di esse. Per esempio, la tendenza individuata dall’autore a “rimuovere l’esposizione di sé trincerandosi dietro un’astratta relazione col mondo fondata sull’autosufficienza e il disciplinamento dei propri bisogni e delle proprie emozioni” (232) non conosce frontiere di orientamento sessuale o affettivo, come ha dimostrato il lavoro di psicoterapeuti quali Roberto Del Favero. È quindi biunivoca quella che lo stesso Ciccone riconosce come la “necessità di un confronto e di un percorso comune tra uomini con differenti orientamenti sessuali e affettivi, diverse forme del desiderio, accomunate dall’esperienza di un corpo e della sua rappresentazione sociale e simbolica che ognuno risignifica in modo diverso ma che rappresenta per tutti un dato imprescindibile” (239-240). Magari questo aiuterebbe anche noi gay a uscire da una dinamica minoritaria che sembra offrirci solo la secca alternativa tra pariah e parvenu, per parafrasare Hannah Arendt.
Alla base del ragionamento non sta quindi una teoria astratta, ma un’esperienza concreta che accomuna omo ed eterosessuali, quella del corpo maschile. Esso è da intendersi, seguendo Ciccone e prima di lui Margaret Mead, “come risultato di una stratificazione culturale e simbolica che, a partire dalla materialità della biologia, ha trasformato l’esperienza che gli uomini fanno del proprio corpo e l’immaginario a essa connesso” (56). E’ sul proprio corpo che l’uomo sperimenta gli effetti di quella logica di potenza di cui si è detto sopra: “Per superare o occultare i limiti del proprio corpo inseguendo un’impossibile scissione tra corporeità e soggettività, l’uomo ne ha ridotto le potenzialità imprigionandolo in un ruolo, in un linguaggio che ne impoverisce la frequentazione, l’ascolto e il riconoscimento, ingessandolo tra il possesso e l’autodisciplina” (61). Qui però le analogie tra omo ed eterosessuali incontrano un primo ostacolo. Se, a differenza delle donne, entrambi, come ha notato Pierre Dufoyer, prendono coscienza della propria sessualità solo attraverso sensazioni spontaneamente piacevoli e, come invece sottolinea Ciccone, possono prescindere dal proprio corpo nella costruzione del proprio progetto di vita e di realizzazione sociale, l’esperienza omosessuale differisce da quella eterosessuale in merito al desiderio: solo quello maschile eterosessuale è dominante. Lo sguardo gay fatica quindi a trovare cittadinanza e il corpo omosessuale viene pertanto privato del fondamentale senso della vista. D’altronde il corpo omosessuale è anche acutamente cosciente di essere oggetto di un desiderio gay maschile e quindi del fatto di non essere “solo veicolo per andare nel mondo, strumento per penetrare, per dare piacere, ma anche «territorio» del desiderio [altrui], esperienza di piacere che è percezione di sé” (83). Certo, il corpo omosessuale rischia anche di essere sottoposto alle dinamiche reificanti che generalmente normano il corpo femminile poiché, scrive Ciccone, “anche soggettività non assimilabili alla norma eterosessuale o discriminate possono condividere con me complicità con un ordine normativo che le nega e scoprire che anche i loro desideri nascono in un universo condiviso, in un immaginario che reinterpretano dalla propria collocazione” (88). Giustamente l’autore nota che le varie forme di copertura del corpo femminile diffuse nei paesi di religione islamica sono speculari all’esposizione dello stesso in Occidente avendo una comune matrice nel desiderio maschile che “è dunque anche l’oggetto non nominato delle norme religiose” (107).
Anche il tema della violenza deve allora partire da una riflessione sull’identità maschile che “si afferma come radicata in un soggetto portatore di desiderio [segno della sua vitalità, ndr.] e della capacità di dominarlo” (34) e che presuppone la rimozione della soggettività altrui. L’aspetto più interessante dell’approccio dell’autore è quello di concentrarsi sul carnefice al posto che sulla vittima. La violenza non è infatti un fatto marginale all’universo maschile, deviante o patologico, ma “affonda le sue radici in quel grumo contraddistinto da una rappresentazione degradata e bassa del corpo maschile e dalla rimozione del desiderio e della soggettività femminile” (51). Anche l’attenzione esclusiva alle vittime nelle campagne contro la violenza sessuale viene criticata poiché non esce dalla logica di considerare le donne come “bisognose di tutela più che portatrici di diritti” (21), mentre la crescita della libertà e dell’autonomia femminile sarebbero una risorsa preziosa “per permettere agli uomini una diversa esperienza di sé e del proprio corpo e dunque per aprire una strada di uscita dalla violenza non basata su meccanismi di disciplinamento e controllo” (51).
In quest’ottica acquisisce un nuovo senso anche il tanto attuale fenomeno della prostituzione. Questa pratica permette infatti al cliente – Ciccone considera solo la maggioranza maschile – di prescindere dalla relazione e rivela come, attraverso la mediazione del danaro, gli uomini svalutino il loro corpo nel “mercato del desiderio sessuale” (46). Emerge così “un’immagine della sessualità maschile molto povera e limitata a «scarico» fisiologico scisso dalla sfera emotiva e relazionale” (40). Uno stereotipo rafforzato non solo dalle giustificazioni che gli stupratori portano a loro discolpa, ma anche, come dimostra il libro di Sandro Bellassai sulla legge Merlin citato da Ciccone, dai sostenitori della necessità della prostituzione come forma di sfo
go dell’esuberanza sessuale maschile.
La riflessione di Maschile Plurale sul corpo porta poi a sottolineare la precarietà della virilità che, per la sua portata normativa risalente al mito di Medea, non può essere semplicemente ancorata a un’esperienza corporea, ma si carica di una valenza simbolica che arriva a sovrapporsi alla realtà fisiologica alterando fortemente il rapporto dell’uomo con il proprio corpo. Sono infatti i continui riti d’iniziazione e il riconoscimento della comunità maschile a determinare la corrispondenza al modello normativo di virilità e non il proprio corpo o i propri desideri. E’ proprio in questa caratteristica per così dire sociale della mascolinità che si fonda la pretesa dell’autore di dare valore politico alla riflessione sul maschile. Sulla scorta di due storici, Alberto Mario Banti e Catia Papa, Ciccone collega la precarietà della virilità con la necessità di miti identitari ed escludenti, “che propongono il sangue e la genealogia maschile come luogo di ricostruzione di identità” (127), come la nazione, ma anche con le loro involuzioni più autoritarie. Ma la virilità non è solo norma astratta che disciplina il corpo, “la trasgressione appare come parte costitutiva dei processi di definizione della virilità, con la rappresentazione di una natura maschile che sfugge ai vincoli e alle regole sociali” (101). La trasgressione non intacca quindi i modelli di genere, ma li conferma, essendo “al tempo stesso conformismo di gruppo e disubbidienza alle regole sociali” (102) ed essendo comunque confinata a una sorta di apprendistato giovanile e a momenti marginali dell’età adulta. Molto opportunamente si fa l’esempio degli ultrà negli stadi.
Ciccone arriva persino a individuare una dinamica virilista: “una richiesta di appartenenza, una delega al gruppo in nome di un’emergenza rappresentata dal nemico esterno, una proposta di fedeltà a una storia comune” (117). Poi però propone anche un possibile antidoto: la nonviolenza che definisce un “tentativo di produrre pratiche di comunicazione interne , attente ad ascoltare i bisogni di ogni singola persona e a non concedere spazio a dinamiche di tipo gerarchico o di adesione conformistica e di appartenenza acritica” (123).
La capacità normativa del maschile investe anche i ruoli di madre e padre attribuendo “alle donne il ruolo di nutrici e agli uomini quello di tutori, affermando dunque per questi ultimi l’esercizio della paternità non attraverso la relazione, l’intimità con i propri figli, ma tramite la capacità di procacciare per loro le risorse economiche, di fornire loro una collocazione sociale, un nome, di trasmettere loro un sapere del mondo e dello stare al mondo” (158). Un ruolo che ultimamente si sta rivoltando contro gli stessi uomini penalizzandoli economicamente nelle sentenze di separazione, “privandoli delle relazioni e spesso dei ruoli di relazione con i figli che restano alle mogli” (158) a riprova che i ruoli stereotipati sono “fonte di sofferenza e illibertà per donne e uomini” (159-160).
Molto acutamente Ciccone svela anche come il prendersi cura possa essere “un modo per sottrarsi a una relazione se ipotizza il bisogno in un solo soggetto e porta a tacitare i propri desideri. Questa rimozione può essere […] gesto di potere, basato sulla scelta di non rendere visibili e disponibili nella relazione le proprie domande non mettendosi così in gioco fino in fondo” (168). Questo porta l’autore a prendere posizioni coraggiose e molto condivisibili sulla necessità della corporeità nelle relazioni tra generazioni differenti: “Un’idea di materno oblativo, basato sulla rimozione del desiderio femminile, e una rappresentazione della sessualità maschile schiacciata su una dimensione ferina e violatoria impediscono di mettere in gioco i due corpi e i due desideri nelle relazioni con i nati, o perché rimossi (quello femminile) o perché interdetti (quello maschile)” (170).
Infine l’autore sviluppa un approccio critico anche al discorso pubblico sulla crisi del maschile interpretando le trasformazioni in atto non “come espressione di un eterno conflitto tra principio femminile e principio maschile” (189), ma come un’opportunità per “trovare nuove parole per raccontarsi reciprocamente, per rendere visibile un vissuto differente e pensabili una conoscenza e una comunicazione non più fondate su una presunta specularità tra i sessi, bensì sull’ascolto dell’altro/a nella sua condizione di alterità mai comprensibile fino in fondo” (187).
Il tentativo è quello di sottrarre il maschile alla neutralità della norma e di restituirlo alla sua parzialità. Ponendo l’accento sui singoli si tenta poi di evitare il rischio d’irrigidire anche la parzialità in un uni-verso identitario che neghi le di-versità al suo interno. Si tratta di un percorso che mette in discussione non solo la costruzione storica del maschile, ma anche la complicità femminile che, nel gioco delle parti tra i generi, è essenziale alla riproduzione della mascolinità stereotipata.
Questa è sicuramente la parte più complessa del libro con il più alto livello di speculazione teorica che però evidenzia l’arretratezza della riflessione sul maschile rispetto a quella sul femminile in un paese dove la storia di genere ha spesso coinciso con quella delle donne e dove i men’s studies faticano a farsi strada nel mondo accademico. Il rapporto con il femminismo è certamente il nodo più critico, come denuncia lo stesso Ciccone che pur riconoscendo la difficoltà di trovare un lessico autonomo da quello femminista non riesce ad offrire un sufficiente contributo di autonomia.
L’autore sembra rimanere anche imbrigliato nelle troppo rigide dicotomie tra corpo e cittadinanza, spazio pubblico e privato, norma e relazione, come dimostra, per esempio, la non condivisibile critica allo stato laico “come costruttore di uno spazio pubblico asettico, più che plurale” (106). Si nota qui l’assenza nella bibliografia, pur cospicua e raffinata, di una teorica politica fondamentale come Hannah Arendt. Figlie della medesima rigidità appaiono anche le considerazioni sulle “protesi tecnologiche” (160-166).
Essere Maschi è comunque una lettura altamente consigliabile che rivendica l’importanza politica di un percorso di crescita personale e di auto-consapevolezza svolto attraverso lo strumento principe della politica stessa: il dialogo. Tra storia, antropologia, filosofia e psicologia, l’autore, che però è un biologo, riflette sull’esperienza della rete Maschile Plurale presentandocene una sorta di manifesto che sarebbe bene tenere in grande considerazione.
Stefano Ciccone, ‘Essere maschi. Tra potere e libertà’
Rosenberg & Sellier, Torino, 2009, pp. 252, 18€.