Omofobia istituzionale
Intervento di Yuri Guaiana (Storico, Membro del Direttivo dell’Associazione Radicale Certi Diritti) all’incontro dal titolo L’omofobia nel panorama socio-politico italiano, organizzato dall’Associazione studentesca Valori e Merito in Ateneo, il 7 giugno 2010 presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano.
Innanzitutto vorrei ringraziare gli organizzatori per aver preparato questo incontro che si concentra sull’omofobia (sarebbe meglio dire sulle omofobie) e non sull’omosessualità. Non esiste infatti una questione omosessuale da studiarsi per comprenderne l’origine e il funzionamento. Esiste piuttosto, ed è grave, una questione omofobica, che merita oggi di essere affrontata in quanto tale per meglio comprendere l’ostilità suscitata dall’orientamento omosessuale. È proprio l’omofobia che subordina ancora oggi, in Italia, l’esercizio di una prerogativa o il godimento di un diritto all’orientamento sessuale.
Immaginate cosa accadrebbe se un nero, o un ebreo non potesse sposare un italiano o un cattolico, restringendo quello che la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e il Trattato di Lisbona chiamano “diritto al matrimonio” a una determinata razza o a un determinato credo religioso. Eppure questo è proprio ciò che avviene oggi in Italia, discriminando però sulla base del genere e dell’orientamento sessuale, senza che la cosa venga denunciata dalla maggior parte dei cittadini e dei politici come una violazione dei più elementari diritti umani e come un oltraggio alla democrazia.
Ad alimentare questa situazione è una particolare forma di omofobia che si esprime attraverso le istituzioni e i suoi più insigni rappresentanti, ma anche attraverso le leggi e i regolamenti della pubblica amministrazione: l’omofobia istituzionale. Di questo vorrei parlarvi oggi perché è questa omofobia che con l’Associazione Radicale Certi Diritti (e con la battaglia, condotta insieme all’Avvocatura per i diritti LGBT – Rete Lenford, per il matrimonio tra persone dello stesso sesso) stiamo cercando di combattere per arrivare a quella che Borrillo chiama una “banalizzazione istituzionale” dell’orientamento sessuale che permetta “a gay e lesbiche di plasmare individualmente la loro identità e di negoziare i loro apporti a una cultura specifica” (Borrillo 2009: 8).
Come ha scritto Stefano Fabeni nella postfazione a «Omofobia. Storia e critica di un pregiudizio» di Daniel Borrillo, “la legge da un lato svolge un ruolo chiave nella promozione della stigmatizzazione sociale (quando non rappresenta addirittura un elemento costitutivo dell’omofobia), dall’altro, nella lotta alla discriminazione, nella repressione della violenza omofobica e nella promozione di buone pratiche: lo «stato della legge» può pertanto costituire un elemento di misura del livello di promozione o al contrario di lotta all’omofobia in un paese” (Borrillo 2009: 127). Lo stesso vale a mio avviso per quanto riguarda “il discorso politico in quanto momento di discussione pubblica sul tema, tanto al livello della retorica politica, quanto in riferimento a[lle] scelte politiche” (Borrillo 2009: 127).
Non si pensi peraltro che si stia parlando di una questione puramente giuridica o politica. L’omofobia istituzionale ha delle conseguenze dirette sulla vita delle persone. Lo psicoterapeuta Vittorio Lingiardi, nel suo libro «Citizen Gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale» ha importato in Italia il concetto di minority stress per definire un fenomeno che “riguarda (chi più, chi meno) tutti noi gay esposti al pregiudizio: «lo sviluppo psicologico delle persone omosessuali [è] segnato da una dimensione di stress continuativo, macro e micro traumatico, conseguenza di ambienti ostili o indifferenti, episodi di stigmatizzazione, casi di violenza».
Questo minority stress può essere causa di disagio psicologico: sintomi depressivi, senso di colpa, problemi sessuali, pensieri/tentativi di suicidio. Questi non sono sintomi di un disagio legato all’omosessualità, ma piuttosto di un disagio legato all’omofobia, aggravato dal fatto che «le strutture dell’autorevolezza sociale, quantomeno in Italia, continuano a essere segnate dall’eterocentrismo (eterosessualità come dimensione fondativa del sociale), dall’eteronormatività (eterosessualità come principio regolatore) e dall’eterosessismo (negazione e squalifica dei comportamenti e delle relazioni non eterosessuali).
Il fenomeno del minority stress non è mai disgiunto dal modo in cui viene pubblicamente percepita l’omosessualità: «Il legame tra l’opposizione religiosa e politica all’approvazione di una legge che tuteli le convivenze omosessuali e la crescita di un clima antiomosessuale è evidente. È come se la delegittimazione dei diritti affettivi e dunque della dignità delle persone gay e lesbiche, promossa dall’alto, finisse per lavorare nel ‘basso’ dell’inconscio legittimando i sentimenti omofobi». E, ancora, scrive Lingiardi: «Senza riconoscimento sociale, senza cittadinanza morale, è più difficile che una rappresentazione si consolidi nella mente come legittima e convalidata. Viceversa, nel suo costituirsi come ‘possibile” e ‘legittima”, questa stabilizzazione toglierebbe alla realtà discriminata il suo contenuto ‘minaccioso’ e implicitamente disincentiverebbe le azioni violente e persecutorie […]. Inoltre ridurrebbe l’effetto dell’assimilazione della negatività sociale, cioè l’omofobia interiorizzata, causa della difficoltà ad accettarsi, dell’autodisprezzo, e di comportamenti inconsciamente autodistruttivi in una persona omosessuale”. È evidente quindi che si oppone all’esercizio di prerogative e diritti da parte di gay e lesbiche su un piede di parità con tutti gli altri cittadini è mosso da un’omofobia profonda, tanto più profonda quanto meno è esplicitata e quanto più fortemente è negata»” (http://cadavrexquis.typepad.com/cadavrexquis/2008/01/il-matrimonio-o.html).
Purtroppo nella storia italiana ci sono molti esempi di omofobia istituzionale. Io mi concentrerò solo su alcuni che hanno maggiormente caratterizzato la vicenda dell’Italia repubblicana.
Nel 1953, il giurista Salvatore Messina sulla rivista specializzata «Ulisse» propose “il divieto dell’omosessualità” sostenendo che “il diritto è tutela del minimo etico” e che “il diritto penale non è solo tutela della libertà degli individui, ma tutela, altresì, di molti altri valori: e tra i valori concernenti la moralità pubblica sembra sia da annoverare quello concernente il divieto dell’omosessualità” (Pedote – Lo Presti 2003: 96).
Questa citazione mostra chiaramente come l’omofobia – e
non l’omosessualità, come invece sosteneva il commissario di polizia a Torino, Carmelo Camilleri, nel 1958 – sia “uno dei mali sociali più pericolosi, che dovrebbe preoccupare seriamente i legislatori” (Pedote – Lo Presti 2003: 96) e la cittadinanza tutta. Come afferma Borrillo “l’omofobia non rappresenta soltanto una forma di violenza contro gli omosessuali, ma anche un’aggressione contro i valori che fondano la democrazia” (Borrillo 2009: 107). Salvatore Messina, infatti, per giustificare la sua omofobia non esita ad abbandonare un’impostazione giuridica liberaldemocratica per sposarne una autoritaria tipica di una concezione etica dello Stato: “il diritto è tutela del minimo etico” (Pedote – Lo Presti 2003: 96). La libertà individuale assume quindi una rilevanza secondaria rispetto a una supposta moralità pubblica che dovrebbe addirittura essere imposta attraverso il diritto penale.
L’auspicio di Salvatore Messina fu fatto proprio dal Movimento Sociale Italiano e dal Partito Social Democratico Italiano che tra il 1960 e il 1963 presentarono tre disegni di legge per mettere l’omosessualità fuori legge. Particolarmente pernicioso era la proposta del socialdemocratico Bruno Romano che, oltre a punire gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso con la reclusione fino a tre anni e con una multa fino a 500.000 Lit., introduceva anche il reato di opinione all’art. 4: “Chiunque, a mezzo della stampa, della radio televisione, del teatro, del cinema, di convegni o riunioni dovunque tenuti e di ogni altro sistema di propaganda e diffusione, si renda promotore, organizzatore ed esecutore di azioni e manifestazioni che abbiano come finalità l’apologia della condotta omosessuale è punito con la reclusione da cinque a dieci anni” (Pedote – Lo Presti 2003: 97).
Dal discorso accademico a quello politico, l’omofobia continuava a minare i più elementari principi liberal-democratici con nostalgie nei confronti dello Stato etico e con proposte di limitazione anche della libertà d’opinione di tutti e non solo di gay e lesbiche.
Il 12 luglio 1968 Aldo Braibanti venne condannato a 9 anni di carcere per plagio. Quello a Braibanti fu però un processo alla “diversità” per “ricordare che l’omosessualità, pur non essendo in sé un reato, non poteva certo essere vissuta liberamente” (Barilli 1999: 43). Braibanti era stato denunciato nel 1964 dal padre dell’allora ventiquattrenne Giovanni Sanfratello con l’accusa di averlo irretito. “Poche settimane dopo la presentazione della denuncia, Giovanni Sanfratello veniva prelevato con la forza dalla camera della pensione romana in cui viveva insieme a Braibanti, rinchiuso in una clinica psichiatrica e poi in manicomio, dove fu sottoposto a decine di elettroshock e shock insulinici per fargli recuperare la serenità perduta. Questo trattamento non gli impedì di testimoniare al processo e negare di essere stato plagiato. Ma l’accusa poteva contare sulle deposizioni di un altro giovane amico di Braibanti, Piercarlo Toscani, che interpretò alla perfezione il ruolo di vittima della «prepotenza interiore» dell’imputato.
“Il risvolto omosessuale della vicenda era ovviamente la più eloquente prova di colpevolezza” (Barilli 1999: 44). Naturalmente l’omosessualità dell’imputato si accompagnava ad altre forme di abiezione, il comunismo e la personalità anticonformista, che dipingevano un quadro di corruzione morale. Per sostenere la sua richiesta di condanna al massimo della pena (14 anni) il Pubblico Ministero parlò di “un bisogno del corrotto di diffondere il vizio, così come il drogato diffonde la droga: è questa diffusione della corruzione che permette ai drogati di vivere” (Barilli 1999: 44). Contro la condanna si levarono però vibrate proteste da parte dei radicali di Marco Pannella e di intellettuali quali Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco e Cesare Musatti.
Nel 1970 il processo di appello si concluse con una condanna di 6 anni – 2 già trascorsi in prigione, 2 di condizionale e 2 due condonati in quanto partigiano – e la liberazione dell’imputato. Il discorso omofobo cominciava ad essere contrastato pubblicamente e infatti per i successivi 25 anni le istituzioni non si occuparono più della tematica omosessuale tornando a scegliere la più efficace strategia del silenzio delegando all’omofobia socioculturale il mantenimento di un modello patriarcale ed eterossessista. Come ha scritto Stefano Fabeni: “Anche il silenzio, soprattutto quando è funzionale al mantenimento dello status quo che impedisce di prendere misure concrete per combattere l’intolleranza, è omofobia” (Borrillo 2009: 156).
Unica eccezione a questo assordante silenzio fu l’approvazione della legge 14 aprile 1982, n. 164, «Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso» che, grazie alla mobilitazione dei radicali e del MIT (Movimento Italiano Transessuale) fondato all’interno del Partito Radicale da Pina Bonanno, “offre alle persone transessuali, nonostante lacune e zone d’ombra, la possibilità della rettificazione giuridica del sesso e il cambio del nome in seguito alla modificazione dei genitali” (Borrillo 2009: 129). Non è un caso, tuttavia, che il muro del silenzio sia stato temporaneamente infranto solo per far passare una legge che, per quanto progressiva, andava nella direzione del rafforzamento di una logica binaria che struttura la costruzione dell’identità sessuale. Come dimostra il caso dell’Iran – dove gay e lesbiche vengono ancora messi a morte, ma è possibile cambiare sesso – la transizione sessuale può anche servire a delle identità di genere irrigidite che non producono certo una maggiore accettazione per l’omosessualità.
Nel 1993 venne approvata la cosiddetta “Legge Mancino” che prevede “un pacchetto di misure volte a combattere il razzismo, rafforzando le fattispecie penali contro i crimini d’odio e di incitamento all’odio razziale già introdotte nel 1975 in sede di ratificazione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale”. In questo contesto “si discusse della possibilità di estendere tali fattispecie penali ai reati commessi sulla base dell’orientamento sessuale, di fatto equiparando omofobia e razzismo. Il Parlamento respinse questa opzione, relegando la questione a un semplice ordine del giorno” (Borrillo 2009: 129-130). Al di là del merito della “Legge Mancino”, questa differenza di trattamento è indicativa di quanto l’omofobia sia radicata e di come non venga percepita per quello che è nemmeno dalla classe dirigente del paese.
Arriviamo così a una data periodizzante per il movimento LGBT italiano: il 2000, quando a Roma si tenne il World Pride. La manifestazione è stata importante perché ha portato per la prima volta la questione LGBT nell’agenda di tutte le forze politiche rendendo più difficile da allora ignorare quest’ampia fetta della popolazione. Essa scatenò però anche polemiche caratterizzate da una violenza verbale inedita. In questo clima infuocato, l’allora presidente del Consiglio dei Ministri, Giuliano Amato, “sollecitato dalle richieste d’impedire l’evento da parte del Vaticano e della destra e chiamato a riferire in Parlamento sulla manifestazione stessa, sostenne di ritenerla inopportuna, ma di trovarsi nell’impossibilità di impedirne lo svolgimento perché «purtroppo
esiste una Costituzione» a garanzia del diritto di manifestare” (Borrillo 2009: 150).
Come è evidente l’omofobia non ha colore politico e mina direttamente il patto sociale. Qui siamo al parossismo per cui il capo di un esecutivo di sinistra si dispiace per l’esistenza di una Costituzione che non gli permette di sospendere la libertà di manifestare. Cosa accadrebbe, in qualunque paese, se il capo del governo dicesse che purtroppo esiste quella costituzione sulla quale ha giurato prendendo servizio?
Il governo naturalmente non diede il patrocinio alla manifestazione e il Comune di Roma, guidato da Francesco Rutelli, lo ritirò. La manifestazione si svolse lo stesso, ma le istituzioni non mancarono di esprimere un giudizio negativo di moralità fondato sull’omofobia. Il messaggio non poteva che essere che i cittadini LGBT vengono considerati come un corpo estraneo dallo Stato al quale appartengono e tollerati con molta fatica.
Nel 2002 addirittura una discriminazione positiva entra, per la prima volta, nell’ordinamento giuridico italiano: le Norme in materia di procreazione medicalmente assistita non solo limitano un trattamento sanitario alle sole “coppie di maggiorenni di sesso diverso”, ma sanzionano anche chi applicasse “tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie […] composte da soggetti dello stesso sesso […] con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro” (Pedote – Lo Presti 2003: 98).
L’anno successivo, sempre su stimolo dell’UE, il decreto legislativo del 9 luglio 2003, “introdurrà un divieto di discriminazione limitato agli ambiti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro” (Borrillo 2009: 130). Anche qui, però, l’impianto normativo prevede almeno una disposizione che chiaramente dimostra il pregiudizio del legislatore: “un’eccezione al principio della parità di trattamento in relazione ai requisiti occupazionali che potrebbe giustificare l’esclusione delle persone omosessuali dalle Forze Armate e dalla Polizia” (Borrillo 2009: 131). Come fa notare Fabeni, poi, dopo sei anni dall’entrata in vigore della legge non si registra, a differenza che in altri paesi europei, un solo caso giudiziale contro una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale (Borrillo 2009: 131). Il dubbio che la repressione sociale abbia raggiunto livelli di quasi perfezione non può non sfiorarci.
Nel 2004, il ministro per le Politiche comunitarie Rocco Buttiglione non viene accettato come commissario europeo alla Giustizia e agli Affari interni. Il suo collega, ministro per gli Italiani nel Mondo, Mirko Tremaglia, rilascia questa dichiarazione di solidarietà a Buttiglione su carta intestata del Ministero: “Purtroppo Buttiglione ha perso. Povera Europa: i culattoni sono in maggioranza”. Per voce di Tremaglia, non contestato dai suoi colleghi, lo Stato adotta un linguaggio denigratorio contro una consistente fetta dei suoi cittadini. Naturalmente nessuna conseguenza politica si ebbe dopo il comunicato del Ministro. Cosa sarebbe successo in qualsiasi altro paese europeo? Ma soprattutto, cosa sarebbe successo, forse anche in Italia, se un Ministro avesse usato in un comunicato ufficiale un linguaggio altrettanto denigratorio nei confronti di neri o ebrei?
All’inizio del 2007 il governo Prodi si avventurò nella discussione di una legge per il “riconoscimento giuridico dei diritti, prerogative e facoltà alle persone che fanno parte delle unioni di fatto“. Già il giro di parole per evitare l’uso del termine “coppia” è indicativo. Il provvedimento era un distillato di omofobia e reticenza perché non prevedeva alcuna forma di registrazione della coppia, mostrando tutto il disprezzo nei confronti dell’omoaffettività che evidentemente non può avere cittadinanza in Italia.
Nonostante ciò, il goffo tentativo scatenò una ridda di polemiche. In questo contesto il ministro degli Esteri Massimo D’Alema si dichiarò contrario ai matrimoni tra persone dello stesso sesso sostenendo che il matrimonio tra uomo e donna sta a fondamento della famiglia secondo la Costituzione. Riferendosi a un’interpretazione, ampiamente contestata in dottrina, dell’art. 29 della Costituzione, D’Alema propone una gerarchizzazione delle sessualità e, peggio ancora, delle affettività che porta a considerare l’omoaffettività inferiore o, almeno, qualitativamente diversa da quella etero e quindi impossibilitata ad accedere agli stessi diritti dei cittadini che si conformano alla norma eterosessuale.
Come sostiene Borrillo scrivendo di omofobia antropologica “In quanto rivendicazione individuale (e nella misura in cui resta limitata alla privacy o a una forma ristretta di riconoscimento, l’omosessualità può senza problemi venire integrata nell’ordine della differenza dei sessi. Non appena invece oltrepassa la libertà individuale […] per issarsi allo stesso livello politico e giuridico dell’eterosessualità, l’omosessualità viene percepita […] come una minaccia per la differenziazione dei sessi, elemento – quest’ultimo – considerato indispensabile per la strutturazione psichica dell’individuo e per la sopravvivenza della civiltà” (Borrillo 2009: 69).
E ancora: “La paura irrazionale che consiste nel credere che il riconoscimento ugualitario della coppia omosessuale metterebbe in pericolo la differenza dei sessi è alimentata da un doppio pregiudizio eterosessista: da una parte, che il desiderio sessuale per le persone dello stesso sesso implichi necessariamente il rifiuto delle persone del sesso opposto e, dall’altra, che la verifica biologica della dissomiglianza permetta di erigerla a principio politico. Ma l’assenza di attrazione fisica per le persone dell’altro sesso non implica affatto un rifiuto o una qualunque negazione dell’alterità, a meno che l’altro non venga ridotto alla mera dimensione sessuata. Se anche questa differenza fosse facilmente constatata, nulla consentirebbe di farne un criterio qualsiasi di organizzazione sociale e politica” (Borrillo 2009: 70).
Da qui è partita la battaglia dell’Associazione Radicale Certi Diritti e dell’Avvocatura per i diritti LGBT – Rete Lenford che ha portato a infrangere in maniera consistente il muro dell’omofobia istituzionale. In conseguenza all’azione di Affermazione civile, infatti, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla costituzionalità del matrimonio tra persone dello stesso sesso.
In un dispositivo contraddittorio, ma non privo di aperture, emerge questo importantissimo riconoscimento dell’omoaffettività con il quale vorrei concludere: «L’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico strong> con i connessi diritti e doveri» (Sentenza della Corte Costituzionale italiana 138/2010).
L’omofobia si combatte anche e soprattutto rivendicando pari diritti per ciascun cittadino a prescindere dal proprio orientamento sessuale.
Bibliografia:
Gianni Rossi Barilli, Il movimento gay in Italia, Feltrinelli, 1999.
Daniel Borrillo, Omofobia. Storia e critica di un pregiudizio, Edizioni Dedalo, postfazione di Stefano Fabeni, 2009.
Vittorio Lingiardi, Citizen gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, Il Saggiatore, 2007.
Giuseppe Lo Presti – Paolo Pedote, Omofobia. Il pregiudizio antiomosessuale dalla Bibbia ai giorni nostri, Stampa Alternativa, 2003.